Licenziamento per superamento del periodo di comporto: e se il lavoratore è disabile?

Licenziamento
malattia

Il quadro normativo

Come noto la Legge 68/1999 ha la finalità di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato.

L’art. 10 della predetta legge prevede al comma 1 che “Ai lavoratori assunti a norma della presente legge si applica il trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi”.

Proprio al fine di evitare discriminazioni la norma nazionale a protezione dei lavoratori disabili prevede per questi ultimi diritti e prerogative che gli altri lavoratori non hanno e, al netto di tali disposizioni speciali, un generale obbligo di parità di trattamento tra lavoratori disabili e non, volto, appunto, ad evitare che ai primi siano applicate condizioni di lavoro deteriori rispetto ai secondi.

Tale principio di parità di trattamento nelle norme di legge e di contratto collettivo, però, alla luce del diritto comunitario e della giurisprudenza sia europea sia nazionale, può non essere di per sé sufficiente ad evitare il configurarsi di discriminazioni.

Il D. Lgs. 216/2003, infatti, emanato in attuazione della direttiva comunitaria 2000/78/CE “per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” all’art. 2 rubricato “Nozione di discriminazione” distingue tra discriminazione diretta e indiretta specificando che la seconda si verifica “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

La norma sopra citata, recependo il diritto comunitario, estende la nozione di discriminazione specificando che la stessa non si verifica solo quando sussiste l’intento da parte di un soggetto (in questo caso il datore di lavoro) di trattare in modo deteriore un lavoratore in quanto “diverso” ma anche quando un comportamento oggettivamente neutro, prevedendo il medesimo trattamento per tutti, di fatto esplica effetti diversi su persone che si trovano in situazioni diverse e, nello specifico deteriori per coloro che appartengono a categorie protette come i disabili.

Ciò anche nella totale assenza dell’elemento soggettivo della volontà ed intenzione di discriminare.

Il diritto comunitario e la giurisprudenza della Corte di Giustizia

Tale principio è stato applicato dalla Corte di giustizia (cause riunite C-335/11 e C-337/11) laddove si è trovata a valutare – escludendola – la conformità col diritto comunitario di una norma dell’ordinamento giuridico danese la quale prevedeva il diritto del datore di lavoro di licenziare con un preavviso ridotto il lavoratore disabile che sia stato assente in malattia con mantenimento della retribuzione per 120 giorni nel corso degli ultimi 12 mesi.

Nello specifico la Corte europea ha affermato che “La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una disposizione nazionale che prevede che un datore di lavoro possa mettere fine al contratto di lavoro con un preavviso ridotto qualora il lavoratore disabile interessato sia stato assente per malattia, con mantenimento della retribuzione, per 120 giorni nel corso degli ultimi dodici mesi, quando tali assenze siano causate dal suo handicap, salvo nel caso in cui detta disposizione, da un lato, persegua un obiettivo legittimo e, dall’altro, non vada al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare” (cause riunite C-335/11 e C337/11).

La sopracitata direttiva, inoltre, all’art. 5 stabilisce che “il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.

La sentenza del Tribunale di Milano del 28.10.2016

Alla luce del quadro normativo di cui sopra non è possibile ignorare le sentenze di merito che (seppure allo stato non paiono numerose) hanno qualificato la norma che prevede il licenziamento per superamento del periodo di comporto determinato dalla contrattazione collettiva senza distinzione tra lavoratori disabili e non, una disposizione integrante una discriminazione indiretta.

Sul punto il Tribunale di Milano ha statuito che “ai fini della irrogazione di un licenziamento, concepire per un soggetto disabile contraddistinto da una permanente grave patologia, il medesimo periodo di comporto previsto per un soggetto non afflitto da handicap, contrasti apertamente con i corollari del principio di parità di trattamento per cui situazioni diverse meritano un trattamento differenziato e configuri quella discriminazione indiretta di cui alla direttiva 2000/78/CE (…). Nel caso dell’opposto, il licenziamento non costituisce quindi una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta, dandosi applicazione ad una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore in questo caso di un particolare handicap) in una posizione di particolare svantaggio” aggiungendo che “Sarebbe stato onere della parte datoriale provare che l’intero periodo di assenza imputato (…) era assolutamente indipendente dalla sua patologia, cosa che, invece, agli atti non risultava chiaramente”.

Sulla base di tali presupposti il Tribunale ha affermato che “il datore di lavoro al fine di evitare la discriminazione indiretta in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, va ritenuto obbligato ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5 [della direttiva 2000/78] per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione (come sottrarre dal calcolo del comporto i giorni di malattia ascrivibili all’handicap o individuare un ulteriore giustificato motivo di licenziamento)” (Trib. Milano, 28.10.2016).

Sintetizzando il Giudice di merito ha ritenuto che al fine di non incorrere nella discriminazione indiretta il computo del periodo di comporto del lavoratore disabile deve essere differente da quello del lavoratore non disabile non dovendosi computare le assenze per patologie direttamente connesse allo stato di invalidità (rileveranno, quindi, ai fini del comporto solo le assenze per ragioni estranee all’invalidità del lavoratore, es. malattie comuni).

Con la sentenza sopra esposta il Giudice di primo grado ha dichiarato nullo il licenziamento intimato al lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto ritenendolo discriminatorio e, quindi, applicando la tutela reintegratoria forte di cui all’art. 18, comma 1, Legge 300/1970.

La giurisprudenza di merito difforme dalla sentenza del Tribunale di Milano

Va detto che altri giudici di merito si sono espressi diversamente escludendo che la mera previsione di un periodo di comporto identico per lavoratori disabili e non, integri di per sé alcuna discriminazione.

Alcuni giudici, infatti, hanno ritenuto potersi parlare di discriminazione solo se al disabile sia riservato un trattamento deteriore a causa della sua appartenenza alla categoria protetta e non laddove il licenziamento possa colpire qualsiasi lavoratore nella stessa situazione (ossia il superamento del periodo di comporto).

Tale argomentazione è stata espressa anche dalla Corte di cassazione laddove ha affermato che “L’effettivo superamento del periodo di comporto esclude poi la possibilità di configurare un asserito intento discriminatorio, considerando che la giurisprudenza di questa Corte richiede allo scopo che esso costituisca il motivo unico determinante l’individuazione del lavoratore appartenente alla categoria protetta (…) e che, in ogni caso, di discriminazione può parlarsi solo quanto si configuri un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (…) mentre nella fattispecie qualunque lavoratore sarebbe stato licenziato nella medesima situazione, che costituisce una condizione legittimante di natura generale” (Cass., 24.10.2016, n. 21377).

A tale impostazione “ordinaria” in tema di discriminazione, però, si potrebbe obiettare che l’ipotesi di “un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta” integra una discriminazione diretta, a cui l’art. 2, comma 1, lettera b) del D. Lgs. 216/2003 affianca la fattispecie della discriminazione indiretta.

Conclusioni

Fermo restando che la giurisprudenza di merito non è uniforme sul punto, la posizione espressa dal Tribunale di Milano non va trascurata, seppure non esente da critiche.

In particolare, laddove essa afferma che, al fine di evitare di incorrere in una fattispecie di discriminazione indiretta il datore di lavoro, non dovrebbe conteggiare nel comporto le assenze collegate allo stato di invalidità tale pronuncia si scontra con la realtà posto che il datore di lavoro è nella oggettiva impossibilità di effettuare tale operazione non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia di cui normalmente viene a conoscenza solo in sede di impugnazione del recesso.

Tale posizione, quindi, dovrebbe quantomeno essere contemperata con l’onere del lavoratore disabile, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, di collaborare con il datore di lavoro fornendogli, in prossimità del superamento del periodo di comporto, evidenza documentale di eventuali episodi morbosi connessi con il suo stato di disabilità.

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