Recentemente la Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 108 del 19.2.2020 emessa all’esito del reclamo avverso la pronuncia del procedimento di opposizione con rito c.d. Fornero, ha affrontato, tra le varie questioni coinvolte nella fattispecie, la natura del licenziamento del lavoratore non ceduto col ramo d’azienda di cui effettivamente faceva parte, intimato dopo la cessione stessa e, pertanto, da un soggetto (il cedente il ramo d’azienda) diverso dal reale datore di lavoro (il cessionario).
La fattispecie concreta
La fattispecie concreta è piuttosto articolata ma può essere così sintetizzata.
Il lavoratore che ha instaurato il giudizio era dipendente di una società con qualifica di operaio e mansioni di addetto all’imbustamento e imballaggio di mobili.
Successivamente il lavoratore è stato coinvolto in due cessioni di ramo d’azienda aventi ad oggetto il ramo imbustamento e imballaggio (composto da beni strumentali e lavoratori) passando alle dipendenze delle relative cessionarie ai sensi dell’art. 2112 c.c.. Ciò sempre continuando a svolgere la medesima mansione presso lo stabilimento della originaria datrice di lavoro.
Sennonché l’ultima datrice di lavoro del lavoratore in questione vendeva i beni strumentali dell’appalto alla originaria datrice di lavoro, titolare dello stabilimento, mantenendo invece la sola titolarità dei rapporti di lavoro coi lavoratori addetti al ramo e stipulando un contratto di comodato d’uso avente ad oggetto i beni venduti al fine di proseguire l’appalto. A seguito della cessazione del contratto di appalto, peraltro ante temporis, l’azienda formale datrice di lavoro procedeva al licenziamento collettivo dei lavoratori per riduzione del personale a causa, appunto, della cessazione dell’appalto.
Il primo Giudice, sia nella ordinanza sia nella sentenza all’esito della fase di opposizione, ha ritenuto la natura fraudolenta (art. 1344 c.c.) della comunicazione iniziale e della procedura di licenziamento collettivo nonché la natura illecita del licenziamento stesso che ha dichiarato nullo ai sensi dell’art. 18, comma 1, Legge 300/1970 (che prevede la tutela reintegratoria forte ossia la reintegra del lavoratore con opzione per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità nonché il risarcimento del danno pari alle retribuzioni dal licenziamento alla effettiva reintegra e la regolarizzazione contributiva).
La decisione della Corte d’Appello in sede di reclamo
Anche la Corte d’Appello, alla luce dello svolgimento dei fatti, ha ritenuto la condotta elusiva del disposto di cui all’art. 2112 c.c. sul trasferimento di ramo d’azienda in quanto ha osservato come il ramo d’azienda nelle prime due cessioni fosse stato identificato in un compendio di beni strumentali costituito da plurimi macchinari e da un nutrito numero di lavoratori, il tutto per l’esecuzione delle attività di imballo e inscatolamento dei prodotti.
Detta composizione del ramo d’azienda era rimasta immutata per anni (dal 2008 al 2016) allorché i beni strumentali (macchinari, arredi, muletti, ecc.) sono stati ceduti separatamente mantenendo la società cedente la mera titolarità dei rapporti di lavoro.
La vendita dei beni strumentali ha determinato, secondo la Corte, una illegittima scissione del ramo d’azienda con riduzione della parte residua dello stesso alla mera titolarità dei rapporti di lavoro come tali inidonei a soddisfare la funzione propria del ramo e, dunque, come di fatto accaduto, destinati alla dismissione.
Anche la Corte d’Appello, quindi, ritiene che la complessa operazione posta in essere sia stata funzionale alla retrocessione all’azienda originaria della mera proprietà dei beni del reparto e non anche dei lavoratori addetti al servizio svolto nel reparto che sono stati licenziati.
In sostanza, la vendita dei beni strumentali del reparto integra trasferimento di ramo d’azienda e, quindi, la società acquirente avrebbe dovuto subentrare anche nei rapporti di lavoro dei lavoratori addetti al relativo servizio ai sensi dell’art. 2112 c.c..
La natura del licenziamento irrogato successivamente al trasferimento del ramo d’azienda
Nel caso di specie quindi ci troviamo di fronte a un trasferimento di ramo d’azienda senza però il passaggio dei lavoratori alla cessionaria con permanenza di questi ultimi alle dipendenze della cedente e successo licenziamento.
Con riferimento a tale fattispecie, la Corte d’Appello – a differenza del Giudice di merito – ha ritenuto il licenziamento intimato inefficace e non nullo e, dunque, non ha ritenuto applicabile l’art. 18 Legge 300/1970 ma la ordinaria tutela civilistica.
Ciò in quanto il licenziamento è stato intimato da una azienda (la cedente i beni strumentali) non più effettiva datrice di lavoro del lavoratore e, quindi, legata allo stesso da un rapporto di mero fatto e priva della legittimazione ad irrogare un licenziamento suscettibile di produrre effetti.
Detto licenziamento, infatti, non può incidere su un rapporto di lavoro inesistente o di mero fatto (tra il lavoratore e la datrice di lavoro solo formale) così come non può incidere sul rapporto di lavoro esistente tra il lavoratore e azienda diversa da quella che ha irrogato l’atto di recesso e, quindi, estranea allo stesso.
In sostanza, non possono imputarsi le conseguenze di un licenziamento in capo a un soggetto diverso da quello che lo ha intimato.
Dal momento della cessione dei beni strumentali (e, quindi, dal momento della cessione del ramo d’azienda) il rapporto di lavoro del lavoratore si è instaurato ex lege (art. 2112 c.c.) con l’azienda cessionaria e, pertanto, a seguito della impugnazione ad opera del lavoratore, la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto applicabile la tutela civilistica ordinaria e non l’art. 18 Legge 300/1970, condannando la cessionaria al rispristino del rapporto di lavoro a parità di qualifica e inquadramento dalla data della cessione dell’azienda e al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla data di offerta della prestazione lavorativa da parte del lavoratore fino al ripristino, dedotto l’aliunde perceptum (aliunde che nel caso di specie era pacifico sia in quanto il lavoratore aveva continuato a percepire la retribuzione dopo la cessione del ramo d’azienda, sia in quanto, essendo lo stesso caduto in malattia aveva continuato a percepirla posto che il licenziamento collettivo nei suoi confronti non era ancora divenuto efficace).