Ordinanza Tribunale di Roma n. 12119 dell’1.2.2020: contenuto del “diritto al lavoro” e discriminazione indiretta.

Disabilità

Il diritto al lavoro non può esaurirsi nel diritto al posto di lavoro ma deve necessariamente includere anche il diritto allo svolgimento della prestazione lavorativa. Riservare a lavoratori in condizione di particolare svantaggio lo stesso trattamento riservato alla generalità dei lavoratori (che, quindi, non si trovano in tale condizione) integra una discriminazione indiretta.

La fattispecie concreta

Una lavoratrice dipendente, madre di una bambina portatrice di handicap in condizione di gravità, veniva trasferita dalla propria sede di lavoro di Roma ad altra sede a Milano. Ciò nel contesto di una riorganizzazione aziendale per effetto della quale buona parte delle attività venivano spostate a Milano e, quindi, molti altri colleghi della lavoratrice venivano anch’essi trasferiti in detta città. Mentre presso la sede di Roma rimaneva un gruppo di lavoratori per svolgere attività inerente uno specifico settore. La lavoratrice impugnava in via cautelare il trasferimento che, in accoglimento del ricorso, veniva dichiarato illegittimo. La società datrice di lavoro manteneva, quindi, la lavoratrice presso la sede di Roma ma la collocava in astensione retribuita, di fatto estromettendola dal contesto lavorativo.

La lavoratrice agiva, quindi, nuovamente per l’accertamento dell’inadempimento datoriale.

Il contenuto del diritto al lavoro

Il diritto già accertato della lavoratrice di mantenere la propria sede di lavoro a Roma non si esaurisce nel diritto alla formale assegnazione presso tale sede ma implica altresì il diritto al concreto svolgimento della prestazione lavorativa.

A sostegno di tale assunto il Tribunale di Roma richiama l’istituto della reintegra di cui all’art. 18 Legge 300/1970 che implica l’effettiva riammissione in servizio e non solo la formale ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro. Così come l’art. 2103 c.c. stabilisce espressamente che il lavoratore debba essere adibito alle sue mansioni o a mansioni equivalenti.

Il lavoratore, quindi, ha diritto ad essere posto nelle condizioni di svolgere la propria attività lavorativa e la condotta del datore di lavoro che lo lasci in uno stato di forzata inattività integra un inadempimento contrattuale poiché “il lavoro costituisce un mezzo non solo di guadagno, ma anche di estrinsecazione della personalità”.

L’onere della prova a carico della azienda datrice di lavoro

Integrando tale condotta un inadempimento contrattuale, il lavoratore può limitarsi ad allegare il predetto inadempimento gravando sul debitore convenuto l’onere di provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa oppure la sopravvenuta impossibilità ad adempiere.

L’azienda convenuta spiegava che la decisione di collocare la lavoratrice in astensione retribuita era giustificata dalla impossibilità di occuparla presso la sede romana stante il trasferimento di buona parte delle attività presso la sede milanese ed era altresì una scelta benevola in quanto volta ad evitare il licenziamento, quale conseguenza del rifiuto della lavoratrice ad ottemperare al trasferimento presso tale sede, a fronte della peculiare situazione familiare della lavoratrice in questione.

La società convenuta dava atto che presso la sede di Roma rimanevano 31 lavoratori per lo svolgimento di una attività specifica senza però allegare alcunché in merito alla assenza di professionalità da parte della ricorrente a svolgere detta attività (professionalità che anzi la ricorrente sembrava avere alla luce dell’anzianità di servizio e delle mansioni svolte).

Rilevato questo, il Tribunale, pur riconoscendo i limiti del sindacato del giudice che non può estendersi a valutazioni nel merito delle scelte imprenditoriali a maggior ragione nel caso del trasferimento che non deve presentare i caratteri della inevitabilità ma semplicemente quelli della ragionevolezza, afferma che il fatto che la ricorrente fosse madre di una bambina in condizioni di handicap grave impone un sindacato penetrante nella scelta datoriale stante il divieto di cui all’art. 33 Legge 104/1992 di trasferire il lavoratore dipendente che assista una persona con handicap in situazione di gravità, parente entro il secondo grado, senza il suo consenso.

La discriminazione indiretta

Ne deriva che, stante la situazione di particolare svantaggio della lavoratrice, in assenza di prova dell’oggettiva impossibilità di occuparla presso la sede di Roma (ad es. per mancato possesso delle competenze necessarie) la stessa ha diritto di rimanere e di lavorare presso tale sede più di tutti gli altri lavoratori in essa occupati (e che evidentemente non si trovano in situazione analoga).

Ha aggiunto poi il giudice che l’aver riservato alla lavoratrice in questione – madre di bambina affetta da handicap grave – lo stesso trattamento riservato a tutti gli altri colleghi che non si trovavano in tale situazione di svantaggio (proponendole, appunto, il trasferimento a Milano) ha integrato una discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 25, comma 2, D. Lgs. 198/2006.

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